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C'era una volta un'altra Pampa...

  "Il suo genio esprime sè stesso in erbe alte
  fino a coprire un uomo a cavallo,
  in quantità tale da formare un orizzonte
  che col vento sembra un mare in tempesta…"


  

  

  

Pampa è spazio, è un orizzonte verde infinito in cui il suo genio esprime sè stesso in erbe alte fino a coprire un uomo a cavallo, in quantità tale da formare un orizzonte che col vento sembra un mare in tempesta. E' una terra ricca in cui l'humus abbonda, il granaio del mondo, il paradiso del bestiame.
E' il luogo dove, nel centro dell'Argentina, il Litoral, il clima è temperato, dove tenute di chilometri e chilometri quadrati, las "estancias", hanno fatto la fortuna di tanti, dove attualmente prospera altresì l'agriturismo, dove si praticano sport come l'equitazione, il golf, il "pato"…..
Il luogo dove ognuno di noi dovrebbe andare una volta nella vita per ritrovare sè stesso accanto al silenzio, lo spazio, il tramonto tinto di rosa, il tocco di malinconia che assale aspettando il buio della notte australe tempestata di stelle.
Ma c'è anche un'altra Pampa. Lasciando la zona dell'Argentina centrale e andando man mano verso ovest e verso Sud, il paesaggio si trasforma fino a diventare la Pampa secca che entra nell'altipiano patagonico.
Ma per visitare la Pampa è necessario avvicinarsi al suo passato in cui quella secca rappresenta l'aspetto duro, selvaggio, ostico, di un ambiente sudamericano molto speciale. E' la grande pianura che c'era una volta, prima delle spedizioni per la "conquista del deserto" come chiamano gli storici quelle contro gli indios che hanno determinato il loro quasi sterminio.
L'enorme estensione di cui erano i padroni assoluti si è dovuto conquistarla superando pericoli, che erano molti, la natura inospitale e molteplici flagelli.
Attraversarla era un'impresa eroica. Le incrostazioni salmastre insite del suolo procuravano solo acqua salata mentre lo spazio infinito faceva vedere a chi osava inoltrarsi in quelle terre, miraggi di agognate lagune. Così la sete imperversava fno alla fine della vita degli sprovveduti.

Pampa secca

Ed il clima…. D'estate il sole poteva incendiare i canneti fitti ed estesi e, se il vento Pampero si metteva a soffiare con tutta la sua forza travolgente, a volte in un fronte incalcolabile, la grande pianura diventava fiamma e fumo per chilometri e chilometri. D'inverno le notti erano così fredde che nonostante la fame, i cavalli per riscaldarsi non si allontavano dai fuochi accesi. Ma anche questo era pericoloso: la paura degli incendi e la possibile delazione agli indios della presenza del bianco facevano sì che si accendessero assai di rado.
Lasciati indietro nella Pampa umida i giunchi, gli iris a tre colori che crescevano nei bassi, la Pampa secca regalava cardi ed erbe ogni volta più aspre fino i cespugli isolati e, andando ancora più avanti, gli arenili del deserto.
La mancanza di alberi e la difficoltà per trovare cibo minimizzava il numero degli uccellli ed il loro canto si ascoltava solo cautamente di notte, sempre da lontano.
Alcune piaghe rendevano l'essere umano facile vittima dell'ostico ambiente. Nella demoniaca occultazione "pampeana" le tane delle "vizcachas" (roditore simile ad una lepre) apparivano di colpo facendo cadere i cavalli, le orini delle puzzole potevano accecare un uomo, tratti di terreno erano resi intransitabili per la massa di granchi che lo abitavano. Si presentavano acquitrini, tremanti per coloro che avrebbero voluto passare e che invece affondavano in questo fango sotto il sole: impossibile avanzare, retrocedere, sostenersi. Solo il cavallo esperto intuiva il pericolo e non cercava di attraversarli mai. Il "tàbano", una specie di mosca della Pampa, era insopportabile.
Il nandù (struzzo sudamericano), chiamato dai "gauchos" "la gioia del deserto", che faceva gola per la sua carne, era possibile cacciarlo solo con le "boleadoras", ma era tale la velocità e l'abilità con cui scappava che raggiungeva quasi la saggezza.
Ma la Pampa secca aveva un suo re. Era il puma il cui appetito non rispettava nessun animale, dai cavalli ai guanachi alle locuste e che faceva della caccia uno sport poiché amazzava anche solo per diletto. Nel suo incontrastato regno però, il puma non attaccava mai l'uomo e nemmeno provava a difendersi da lui tanto che i "gauchos" lo chiamavano "l'amico del cristiano". (Allora l'uomo bianco era chiamato dagli indios e dai gauchos "cristiano").
Nella sua saggezza la natura aveva messo nella Pampa una sentinella che vegliava dall'alto: il "chajà", uccello grande come un tacchino, furbo come una volpe, che volava alto come un'aquila anche al di sopra delle tempeste. Il suo grido era l'urlo della grande pianura. Quando la notte iniziava o durante le ore notturne, quando la Pampa spargeva il suo recondito silenzio, i "chajà", solo allora gridavano il loro alleluia.

Fauna tipica

Seguire la rotta era la massima preoccupazione e per non perderla era necessario accamparsi prima che facesse buio e mettersi a dormire con la testa verso la direzione da proseguire il giorno dopo.
A misura che si avanzava le piogge sparivano e l'erba, sempre in minor quantità, resisteva inutilmente: era il deserto.
Innanzi alla Pampa secca il cuore dell'uomo si rimpiccioliva ed il brivido dell'ignoto era il suo peggior nemico. La grande pianura era tutto un rischio dov'era necessaria la prudenza più del coraggio.
Era solitudine, pericolo, l'occulto, l'ignoto con l'unica nota idilliaca data da quell'orizzonte infinito, quello spazio che fa sentire piccoli ma grandi e quel cielo limpido con infinità di stelle impudicamente luminose.

"Credo sinceramente che questi indios siano gli uomini più belli che esistono nell'ambiente che li circonda". Così agli inizi del secolo XIX, un viaggiatore inglese parlava degli abitanti allora padroni della Pampa: i "pampas", "ranqueles", "tehuelches" ed altri.
Quando nel 1536 lo spagnolo Pedro de Mendoza abbandona alcuni cavalli nella grande prateria era ignaro di aver dato il via alla civiltà della Pampa. L'indio, che aveva camminato per secoli, con il dominio del cavallo viene lanciato in una nuova età storica dimostrando, senza alcun dubbio, che il senso trascendente che per l'uomo della preistoria ha avuto la conquista del cavallo si è ripetuto nelle pianure argentine. L'indio si sente potente e nessuno mai saprà cavalcarlo come lui. L'animale diventa parte di sé stesso. Per due secoli combatterà da uguale l'avanzata delle città e sarà necessario che la civiltà sfoggi le sue armi più insidiose, il telegrafo e la ferrovia, per dominarlo.
La cura e l'addestramento del cavallo sono le sue occupazioni domestiche. All'alba salta su uno dei suoi cavalli e va a cavalcare nei terreni peggiori con pantani, dune ed ogni sorta di difficoltà e galoppa per ore minacciandolo con la sua frusta di nerbo, le sue grida ed un movimento speciale del corpo; va per salite e discese e una volta stancato l'animale torna all'accampamento e lo lega ad un palo per un giorno ed una notte. Con questo trattamento, capace di rovinare qualunque cavallo al mondo, quello dell'indio s'invigorisce, diventa unico, inattaccabile dalla fatica, la fame, la sete, il freddo, il caldo, provocando così lo stupore degli stranieri.
Un indio a cavallo si trasforma in un mostro biforme perché sa come trattarlo: non lo picchia mai quando l'addomestica e solo lo considera mansueto quando l'animale accetta tutto dall'indio con le orecchie abbassate. L'indomito abitante della Pampa non ha l'abitudine di scendere dal cavallo durante le sue marce, nemmeno per darle da bere. Si sdraia sul suo dorso per dormire o riposare come in un letto a volte per ore e ore.
Ma chi era l'indio della Pampa? Come viveva?

  

L'indio

In un clima inospitale e duro, l'indio vive nudo nel freddo e nel caldo, al massimo coperto con un "poncho".
Per ambizione e/o per impaurire, si tinge il volto a strisce rosse. E' un individuo forte: durante la caccia, d'inverno, sfida le peggiori tempeste di grandine e di vento.
Mangia carne di cavallo, quasi sempre cruda perché nella Pampa la legna è scarsissima ed il fumo traditore, e beve latte anche questo di cavalla. Non conosce né il pane né i legumi e come frutta mangia solo la carruba (varietà diversa da quell'europea).
Quando la caccia non è riuscita o le sue scorribande falliscono, appende da un albero una cavalla dal quarto posteriore e le apre la iugulare. Il sangue, raccolto così in un vaso d'argilla, ancora caldo e spumeggiante, sazia la fame della tribù.
Abita in una tenda di pelle di puledro cucita con tendini di "nandù", tenuta su un palo di sostegno e una pelle fa le veci della porta. Ma l'indio è transumante. Accampa dove c'è erba e per il tempo che dura. Poi cambia luogo alla ricerca di un nuovo "verde" e nel suo andirivieni può dormire tranquillamente sulle pietre umide coperto dal "poncho".
Le sue armi sono: la lancia di canna, micidiale con la sua punta afilatissima, le "boleadoras" (palle di pietra fissate con una corda) ed il "lazo" (laccio).
Lottando a piedi o a cavallo l'indio le sa usare in modo inverosimile facendo sì che una palla gli faccia da scudo e l'altra da clava. Le frecce, arme a lungo raggio, sono sostituite dalla "bola" persa. Una canna "tacuara" (specie di canna della Pampa) lunga anche 18 piedi, ornata con piume e maneggiata dall'indio con precisione che sa di magia, può anche portare una miccia nella punta per provocare un incendio.
L'indio della Pampa crede nello spirito del bene, uomo invisibile che adora da solo, ma crede ancora di più in Gualicho, che teme perché è lo spirito che aiuta le scorribande dei bianchi, che porta la peste, la morte, i dolori fisici e la bussola del cristiano. Crede in un altro mondo dove vivrà in perfetta felicità, e cioè, ubriaco e cacciando.
Quando cavalca di notte l'indio guerriero punta la sua lancia verso il cielo disegnando nelle costellazioni le figure dei suoi antenati che crede lassù cavalcando il vento e tirando le sue "boleadoras" alle stelle "le tre marie", secondo loro i "nandù delle alture".
E' estremamente diffidente. Non solo sospetta del cristiano, ma anche di sè stesso. Ognuno ha il suo segreto che non svela a nessuno: la conoscenza di un luogo dove trovare acqua, un vado, una distanza, ecc.
E' un essere eroicamente primitivo. Lo dimostrano le sue maniere e le sue usanze.
Per temperare un bambino al dolore lo alza per i capelli e se non piange è già un uomo. Le sue medicine sono terrificanti: ungere di grasso il paziente e metterlo al sole, cucirle le labbra, bruciare i denti con un uovo bollente.
Ogni mattina inizia la giornata all'alba e per prima cosa procede a levarsi i pidocchi.
E' abitudine dell'indio maschio radersi strappandosi la barba. Non sa dominare la sua collera e solo si sfoga uccidendo. Durante le scorribande sgozza per odio perfino i cani ed i cavalli dei cristiani e le sue danze, che non hanno un senso mimico, sono uno sforzo talmente brutale che le donne in alcune occasioni cadono esauste o in fin di vita.
Ma nonostante un'essenza così primitiva, come in ogni associazione in cui sussiste la proprietà comune, gli indios custodiscono la loro uguaglianza. "Qui siamo tutti uguali fratello" dicono i "caciques" (capi) a quelli delle altri tribù. Ed è in gran parte vero: quando gli uomini deliberano il capo sta attento a non modificare la volontà della maggioranza. Ed ancora: tra di loro non si conosce l'accattonaggio, non si rifiuta mai l'ospitalità e per niente al mondo si viola una tomba, non si conosce la prostituzione e la poligamia e solo praticata dai potenti, cioè dal "cacique". I l rapporto con i bianchi (i cristiani) raggiunge punte di odio insospettabili, sentimento che è ampiamente contraccambiato. In quest'ammosfera è classica la risposta dei gauchos quando si chiede loro se durante la lotta fanno molti prigionieri: "Nessuno".
Le scorribande degli indios, "los malones", facevano tremare anche la forza della natura. Da lontano si sentiva un rumore sordo, accompagnato dagli acuti suoni delle grida selvagge dell'attacco e s'intravvedeva prima un misto di polverone e di nebbia che si avvicinava imperterrito, poi le sagome dei cavalli tutt'uno con i loro cavalieri. Il gaucho esperto sentiva un tenue tremolio nel terreno prima ancora di vedere il "malòn", ma niente lo fermava poiché era come il vento, la tempesta, il terremoto, un flagello incontenibile.
Quando arrivavano incendiavano quanti "ranchos" (capanne dei banchi) trovavano ed ammazzavano gli uomini, le donne anziane, quelle giovani brutte ed i bambini che alzavano con le loro lance e li finivano per aria, portando via con loro solo le donne giovani e belle ed allontanandosi nelle tenebre poiché l'indio tanto quanto la fame di bestiame sente il desiderio della donna bianca perché aveva la pelle bianca, i capelli più fini ed era più alta. Ecco la loro espressione: "cristiana, più bello".

In queste circostanze non c'era un accampamento nel deserto della Pampa secca dove non ci fosse una prigioniera bianca, ma l'indio, nonostante desiderasse ardentemente la donna "cristiana", la tratta come una di loro, o peggio ancora, la consegna ad un'india affinché ne faccia la sua serva. Così la donna strappata dalla civiltà diventa schiava di un'altra che è già schiava, secondo il modello di vita indio, dovendo sopportare non solo gli eccessi del suo padrone, ma anche gli intrighi, gli odi, i maltrattamenti fisici delle "indias". L'unica consolazione, se così si può usare la parola nel senso più pessimistico, è che il passo dalla civiltà alla vita selvaggia è una strada in discesa. Infatti dopo qualche mese di vita all'intemperie il suo fisico ed il suo spirito cominciano ad entrare nel tunnel dell'adattamento.
Alcune prigioniere portano la loro ostinazione fino ad arrivare all'eroismo rifiutando l'indio e le sue abitudini, ma la maggior parte si sottomette al proprio destino. Altre, dopo aver perso la loro prima famiglia e con essa i loro genitori, figli, mariti, fratelli, dopo lunghi periodi, diventano più indie che cristiane ed arrivano ad incolpare l'uomo bianco che "non ha saputo difendere le loro donne ed i loro figli".
Con il tempo non è raro che l'amore per i figli nati durante la prigionia, che si aggiunge al potere inesplorabile dell'abitudine, non finisca per cambiare i loro sentimenti.
Ricordando, come una piccola perla e tra parentesi, che il conquistatore bianco è stato colui che per primo ha imprigionato una donna india, è da rilevare che sempre, nella Pampa il ratto della donna è stato collegato all'amore od al sesso. Nel caso delle prigioniere "cristiane" chiuse negli accampamenti, hanno connaturalizzato le loro abitudini con quelle degli indios fino che queste sono diventate consanguinee nella propria fisiologia poiché c'è sempre nella donna che è vissuta prigioniera per anni, uno strappo interiore, un taglio verticale che la spinge verso la civiltà o la barbarie. Nella civiltà c'è il suo passato, nel presente e nel futuro quel che resta loro da vivere. Ma sempre l'amore per i figli: quelli del padre indio la inchiodano nell'accampamento.

La letteratura argentina non è stata indifferente a questo fenomeno con radici autoctone e che sono parte della storia delle donne del nostro paese, ed autori come Esteban Echeverrìa, Rafael Obligado, Hudson ed altri, hanno scritto alcuni libri che, a volte con un soffio di romanticismo, hanno immortalato una parte della storia del paese più australe del mondo.
Il viaggiatore che ai giorni nostri, cavalcando nella moderna pianura, con le sue "estancias" comode, opulente, o che in relax osserva l'orizzonte da un confortevole agriturismo, se si mette a pensare in un passato neanche molto lontano, se lo si paragona con quello della vecchia Europa, avrà cominciato a capire la Pampa, e capire vuol dire entrare nel suo spirito, nella forza della sua solitaria natura, nel suo orizzonte infinito e irraggiungibile come un ideale, come un'utopia.

Quando s'impossesserà di tutto questo la Pampa sarà entrata a far parte di sé e non lo abbandonerà mai più.



                                         Mirta Panfido


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